
Francesco Facchinetti e Matteo Ieva sono Le Ore e hanno da poco pubblicato il loro primo Ep “Che Fine Abbiamo Fatto” dopo il successo del singolo “La Mia Felpa È Come Me” presentato a Sanremo Giovani nel 2018. Un viaggio tra <<atmosfere indie-folk ed arrangiamenti alt-pop, illuminando le nostre quotidiane zone d’ombra>>.
Con “Che Fine Abbiamo Fatto”, il duo cambia suono e stile e ad accompagnarli in questo nuovo viaggio c’è un personaggio insolito, un fantasma, simbolo delle ansie e dei turbamenti amplificati dagli ultimi tempi, è la metafora di una generazione invisibile e sempre poco ascoltata.
Ecco l’intervista a Le Ore!

Ciao ragazzi! “Che Fine Abbiamo Fatto” è il vostro primo EP. Come mai questo titolo? E soprattutto perché c’è un fantasma sulla copertina?
Ciao, è un piacere farci questa chiacchierata, “Che Fine Abbiamo Fatto” ce lo siamo chiesto tante volte negli ultimi tempi, quando non sapevamo chi fossimo diventati, quando non ci ritrovavamo più nel mondo che vedevamo raccontato in televisione e sui social network, quando non sapevamo come fossero arrivati al capolinea quei rapporti, umani e lavorativi, che eravamo soliti dare per scontati e assodati. È un verso del brano d’apertura “Ennò però” e racchiude a pieno tutte le sfaccettature di una situazione che non sappiamo inquadrare, e che sicuramente non è delle più rosee. Il fantasma è un po’ il simbolo di questa situazione, di questo turbamento a cui non sappiamo dare un nome o un volto, una figura comunemente vista come negativa, un’ombra che sembra perseguitarci ma che probabilmente vorrebbe soltanto che ci fermassimo, che tornassimo indietro ad abbracciarla, o quantomeno ad affrontarla.
Ecco, in questo EP affrontiamo un bel po’ di fantasmi.
Il fantasma è anche la metafora di una generazione invisibile e poco ascoltata. Voi vi sentite un po’ la “Generazione X” di quest’epoca?
Sinceramente ci sentiamo nel bel mezzo di una società che non ha capito a chi deve dare retta, tra il fascino che prova per la gioventù e la scarsa considerazione che ne ha. Noi probabilmente facciamo parte di una fetta di questa generazione, quella che ha colto alcune incongruenze e si pone degli interrogativi, tutti gli altri (anche coetanei) tirano avanti, forse con molte meno crisi e molti meno problemi di noi; tuttavia non crediamo la loro sia leggerezza, piuttosto la definiremmo inconsapevolezza, incoscienza misto in certi casi anche a ignoranza.
“Una Canzone Del Cazzo” è una confessione di come il tempo passa. Come avete passato il vostro tempo durante questo anno e mezzo di pandemia? State ancora imparando a <<campare male>>?
Il “campare male” è riferito a questa vita in generale, non necessariamente al lockdown o alla pandemia (pur avendolo scritto disteso sul letto nei giorni in cui avevo il terrore di aver beccato il covid), l’ho scritto pensando al ruolo che abbiamo su questa terra, se vuoi marginale, insignificante, tutti impegnati a ritagliarci uno spazio più grande e poi perdiamo di vista quei momenti che in realtà sono l’essenza del vivere davvero, e sinceramente non penso di aver ancora capito come collezionarli tutti. Per il resto la pandemia è stata (ed è) un cancro che abbiamo cercato di sfruttare per far fruttare al meglio il tempo passato in casa, scrivendo molto di più, producendo, leggendo e guardando film, la vera benzina per due cervelli sempre assetati di storie ed immagini come i nostri.
Tutto l’EP mi sembra una sorta di confessione dei vostri 20 anni, di quello che è stato, ricordi e amori passati. Un EP molto maturo che sembra segnare un punto con il passato e un nuovo inizio, sbaglio?
Grazie, siamo contenti che passi quest’evoluzione, segno che quest’anno di silenzio non è passato invano, che la ricerca che abbiamo fatto sul suono e su noi stessi ha dato i suoi frutti. Non riuscivamo a capire come molti dei nostri colleghi riuscissero a sfornare canzoni che non risentissero minimamente di quell’incertezza, della vulnerabilità di quel periodo (che di base non ci siamo ancora lasciati alle spalle), e come sui social si sprecassero così tante energie per diffondere odio e indignazione quando in realtà c’era l’occasione per riscoprire la tolleranza. Abbiamo allora scelto il silenzio, ci siamo detti “Ogni volta che ci verrà da scrivere un post, piuttosto scriveremo una canzone” e così, dopo un anno, non abbiamo più niente su Instagram, ma un sacco di roba da suonare 🙂

“Caviglie” è la traccia finale dell’EP ed è una dedica a Roma. Come mai avete deciso di dedicare una canzone alla Città Eterna? <<L’Estate Fa Male>>, lo pensate davvero?
<<L’estate fa male perché non può restare, è una scarpetta col pane che non si fa mangiare>> questo è il senso di nostalgia che proviamo a Roma ogni anno quando finisce l’estate, e questo pezzo è nato proprio un anno fa, quando affacciato alla finestra ho sentito che l’aria stava cambiando, e nonostante sembrasse arrivata da un attimo, l’estate stava già scappando. L’estate romana non ha eguali, l’atmosfera è completamente diversa quando cala il sole, la dedica è a Roma, a questa stagione meravigliosa di notte e a quei momenti liberi e senza orari che l’anno scorso ci è stato impossibile collezionare, per ovvi motivi.
Dopo il successo de “La Mia Felpa È Come Me”, starete mica progettando un ritorno sul palco di Sanremo Giovani?
Ahaha in questo momento non è nei nostri piani, stiamo pensando soltanto a fare la miglior musica possibile, perché poi lì entrano in gioco altre logiche e altri nervosismi che sovraccaricano il tutto in un modo non sempre molto sano. Quando ci passerà per la testa una cosa del genere ve lo verremo a raccontare, promesso 🙂