“Medicine At Midnight”: la maledizione di chiamarsi Foo Fighters

<<Anziché fare un altro album per adulti ho pensato: ‘Fanculo, facciamo un album da festa’>>

“Medicine At Midnight”, decimo album in studio all’alba dei 27 anni di attività, è il disco più celebrativo e festaiolo della band di Seattle che porta con sé l’ingrato compito di dover preservare se stessa e l’integrità del rock tutto.
Più di un quarto di secolo dopo essere resuscitati dalle ceneri del grunge, scalato le classifiche, fatto incetta di premi e conquistato gli stadi di tutto il mondo, i Foo Fighters decidono di suggellare la loro storia con la gioia di una nuova nascita, puntando tutto sul rassicurante. Non necessariamente per blocco creativo, ma anche solo per un frettoloso impegno fraterno verso coloro che li hanno sempre supportati, fanbase in testa.

Dave Grohl, icona dei combattenti Foo quanto dell’intera resistenza hard rock, è ormai detentore della capacità innata di ammaliare chiunque gli si avvicini. Classe 1969 (profeticamente l’anno del più famoso festival nella storia del rock), consacrato a furor di folla come IL frontman – istrionico, polistrumentista, donatore sano di una quantità fuori misura di se stesso ai fan – potrebbe di fatto essere uno degli ultimi musicisti a vivere ancora nella scia del rock monoculturale. In tour con una gamba rotta su un trono fatto di chitarre, idolo di Cesena dopo l’appello dei Rockin’1000 e sfidante online una bambina prodigio in una drum battle di tutto rispetto (giusto per fare qualche esempio) l’aura di “Davide” ha oramai superato da tempo quella del semplice artista musicale.

Come altri grandi prima di lui, il bivio che si ritrova ad affrontare quando si porta avanti la bandiera dopo 27 anni di meritato successo rimane quello fra l’innovazione e la riproposizione.

“Voglio solo restare in vita e suonare, soprattutto dopo i Nirvana. Quando Kurt è morto, il giorno dopo mi sono svegliato e mi sono sentito così fortunato ad essere vivo, e così affranto dal fatto che qualcuno possa semplicemente scomparire da un giorno all’altro.. che ho deciso di approfittarne per il resto della mia vita”

E questo istinto di autoconservazione si avverte moltissimo nella sua ultima creazione, “Medicine At Midnight”.

LASCITO E MALEDIZIONE
Tanto power pop quanto hard-rock garage, quasi un patinato “Let’s Dance” di Bowie, “Medicine At Midnight” è un disco augurale e possibilista, con in seno la gioia di essere ancora in vita e il terrore di doverci restare. Nascosto in qualche angolo insondato della mente, si avverte la netta paura di dover conservare integra l’istituzione del rock, ma in una morsa così stretta da rischiare comunque di soffocarlo.
Lanciato ancora una volta dal produttore pop Greg Kurstin, “Medicine At Midnight” avrebbe potuto dare più voce a “Shame Shame”, uno straordinario esperimento arpeggiato che striscia furtivamente verso una direzione orchestrale intima, pur rimanendo nel cabotaggio del rock cantautoriale (lo stesso dicasi per “Chasing Birds”).

Avrebbe potuto alimentare di più gli afflati blues della title track, tributo evidentissimo agli Stones e alla new wave. Avrebbe persino potuto rimanere nella potente incertezza stilistica di “No Son Of Mine”.
Invece scende sempre più nei meandri dell’indie alla Ok Go e The Hives (che però hanno fatto di quel sound la loro raison d’être), quando non è pura riproposizione punk dei riff di Black Sabbath e Motorhead.

Non c’è molta interiorità o dimensione nelle 9 canzoni del disco, che pure suonano così bene e così energetiche da illuderti quasi che non siano un déjà-vù. Tutto ciò… quando non arrivano addirittura ad essere la versione guitar hero del rock da stadio, che prima ancora della pandemia veniva incapsulato e rivenduto in formato famiglia dalle grandi radio e dai grandi store (i quali però hanno sempre avuto la forza economica di sopravvivere alle crisi perché multisettoriali e specializzati nella formula del “facsimile”). I quali, in aggiunta, hanno anche avuto la funzione di “specchietto per le allodole” per tutta quella frangia di irriducibili del rock geriatrico con la tendenza a mitizzare gli anni più caldi dell’hard rock senza mai concentrarsi sull’innovazione portata, seppur in forma minore, dal contemporaneo.

Non c’è un singolo brano che non suoni figo e trascinante (provate a sentire “Waiting On A War” senza aver voglia di prendere allegramente a calci il divano), eppure non viene mai dato spazio al mondo oscuro e selvaggio che Dave ha evidentemente isolato per spirito di autoconservazione, per paura che quella gamba rotta non si riprenda più se dovesse malauguratamente tirare un altro calcio sul palco.

Mentre l’eredità dei Foo Fighters si lega a spettacoli dal vivo epici intrisi di meraviglia, che mai smetterà di stupire il pubblico di tutto il mondo, il campanello d’allarme per il rock stesso si fa sempre più sonoro. Ci si chiede dove siano finiti gli originali di “Everlong” e “Times Like These”, di “Walk” e di “Walking After You”. Abituati come siamo a doverci accontentare del meglio di niente, quell’angolo della mente resta silentemente pacificato da canzoni che sul lungo periodo non passano la prova del tempo. Mentre il destino del rock tradizionale da arena riposa in quelle medicine della mezzanotte che più che un balsamo per lo spirito, hanno sempre più il sapore dell’anestetico per la mente.

VOTO: 6,5

Rispondi

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.