I Killers scappano dal deserto del Mojave alla ricerca di un miraggio

Foto di Chad Kirkland/Rolling Stone

La città di Las Vegas sorge all’interno del Deserto del Mojave (dal nome dei nativi americani) che si estende tra la California e il Nevada. È la capitale del gioco d’azzardo, della prostituzione e dell’alcol, non a caso è chiamata ‘Sin City’. Dalla city al deserto vero e proprio però è un passo, una passeggiata di poche centinaia di metri, ci si perde inevitabilmente tra piogge di sabbia e temperature sotto zero. Proprio da qui, stavolta, i Killers tentano la fuga, dopo il patriottico “Wonderful Wonderful” che non a caso li ha anche portati al primo posto della classifica americana per la prima volta.

Brandon Flowers ci ha messo 15 anni per emulare perfettamente Elvis, tra ancheggiamenti sexy e occhiolini ai limiti della galera. Ci ha impiegato un disco per spogliarsi e rimettersi il suo cappello da cowboy, quello che ha fatto grande “Sam’s Town”. Stavolta però manifesta il suo miraggio interiore e lo fa implodere mostrandone scorci al pubblico (“Imploding The Mirage” per l’appunto): una visione in cui il disagio partecipa di pari passo con la potenza e il sorriso dei synth.

“We’re cut from a stained glass mountain. Baby, we’re a dying breed” (da “Dying Breed”). Viene fuori tutta l’irrequietezza del momento del lockdown e dell’essere rinchiusi in una città, nel deserto, a Las Vegas. ‘Stiamo stretti’ sembra urlare Brandon. E viene accontentato. Inizia il viaggio senza cautela (“Caution”) della band-duo Flowers/Vannucci oltre il deserto alla scoperta di nuovi lidi per riabbracciare il pubblico e dirgli gentilmente ‘Andrà tutto bene’. Ma stavolta davvero.

“La fedeltà è lo sforzo di un’anima nobile per eguagliarsi a un’altra anima più grande di lei” diceva Goethe. E così Brandon Flowers rimane sempre (e per sempre) fedele al decennio che gli ha dato il Natale e continua a nutrirlo artisticamente, gli anni ’80, grazie alla presenza della maestosa voce di K.D. Lang in “Lightning Fields”.

Dalle sapienti mani di Stuart Price (già al lavoro con Madonna, Dua Lipa e lo ricordiamo per il famoso remix di “Mr Brightside”) nasce un ibrido 80s-funky-pop che si concretizza in “Running Towards A Place” e trova la sua misogina forma in “Fire In Bone”. La giovane cantautrice statunitense Weyes Blood arricchisce i cori di “My God”. A differenza dei suoi cinque predecessori, “Imploding The Mirage”, si chiude con un brano, omonimo, carico di energia che raccoglie tutta la vitalità della Las Vegas luci e colori: non una ballad che dà la buonanotte al pubblico ma lascia aperto un discorso che i Killers continueranno presto.

“Imploding The Mirage” risente fortemente del periodo dark che il mondo sta attraversando da quasi un anno e dai pensieri altalenanti di Brandon riguardo gli Stati Uniti in particolare (“Land Of The Free” è dedicata a Trump e doveva essere in un primo momento inserita nel disco). A tratti sembra quasi di riascoltare “Battle Born”, album del 2012, seguito del capolavoro “Day & Age” (al suo interno la super hit mondiale “Human” coronò la carriera dei Killers) che mise in crisi la verve di compositore di Brandon Flowers.

Con questo album il processo è esattamente il contrario, la mente di B. è aperta grazie all’influsso di innumerevoli chakra che forse nemmeno lui sapeva di aver aperto. Tutto sta sempre nel convogliare le energie nel punto giusto.

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