L’ambiguità del reale nel “Sogno vero” di Kublai

Kublai

“Sogno vero” è il nuovo disco di Kublai composto da quattro tracce, una piccola collezione di paradossi, un nuovo EP per il progetto solista di Teo Manzo che segue la pubblicazione del omonimo disco d’esordio del 2020. Il disco attinge a piene mani dalla categoria dei sogni, tanto improbabili quanto rivelatori, sceneggiature che mostrano, senza risolverla, l’ambiguità del reale.

L’ossimoro del titolo allude a un “risveglio”, alla consapevolezza di aver vissuto qualcosa di così assurdo da assomigliare a un sogno. Se i quattro brani del disco ci chiedono di guardare il baratro, ci offrono, al tempo stesso, una passerella, una via d’uscita panoramica, un passaggio sicuro dal sogno-incubo al sogno-desiderio. Come già nell’album di esordio del 2020, Kublai vuole ricomporre la distanza – siderale nella canzone italiana – tra forma e contenuto, tra canto e canzone. I testi di Kublai sono sfocati, ellittici, eppure vividi nella presenza della voce, e così le musiche, che alternano canti a spazi, architetture melodiche a momenti di respiro strumentale. Per Kublai, “Sogno vero” è anche un auspicio: dotare il canto di un potere espressivo a prescindere dal suo, spesso superfluo, contenuto. Sarebbe un sogno, per davvero.

Racconta Kublai: “La pienezza di una fine, un oceano di inchiostro con cui scrivere per non annegare, un corpo inerte che si fa approdo e riparo, una festa sul tetto accessibile solo se dormi”.

Track by track

UNA NOTTE PIÙ LUNGA
Il brano spalanca da subito un baratro ai piedi dell’ascoltatore, con la promessa che lo accompagnerà per l’intera durata dell’album. Non parliamo qui di un abisso minaccioso, ma di un vuoto che occupa spazio, che completa, che informa. L’attesa, la sospensione, la precarietà che la canzone ci chiede non sono più insopportabili, e il nostro paradosso è – infine – contemplabile.  

UN FINE PIÙ GRANDE
“Un fine più grande” è il secondo singolo tratto da “Sogno vero”. Ci troviamo in un sogno, è estate, la spiaggia non può essere lontana. Quando arriviamo, il mare è una distesa di inchiostro: scrivere è l’unico modo per non annegare. Raggiungere un fine più grande era solo un desiderio, un’astrazione. Ora è un istinto vitale, necessario, non più rimandabile.

L’ARMADIO
Ne “L’armadio” si consuma un altro paradosso. È mattino presto, siamo in una camera da letto, l’unica uscita sembra essere la porta di un grande armadio. Cerchiamo l’abito adatto, che ci trasformi, ci allontani da noi stessi, ci renda qualcun altro. Notiamo però una persona stesa sul letto, addormentata. La sua figura, nella penombra, assume le sembianze di un’isola che emerge dalle onde-lenzuola. Qui capiamo di essere noi l’orizzonte, l’approdo lontano. La nostra fuga, forse, non è più necessaria.

ATTICO
“Attico” è l’ultimo brano di “Sogno vero”, al contrario dei precedenti però l’ambiente è tutt’altro che onirico: siamo svegli, vigili, stesi su un letto in attesa. Sentiamo i rumori di una festa provenire dal tetto, ma non vi è accesso possibile se non addormentarsi e sognare di parteciparvi. Siamo condannati all’insonnia, che qui però è sinonimo coscienza, conoscenza, presenza a noi stessi. Sappiamo che esistono luoghi inaccessibili, come la mente delle altre persone, verità che non possediamo, follie che non conteniamo. Questa stessa consapevolezza è la nostra sopravvivenza, il senso della nostra veglia, il nostro restare.

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