
Chi è alle prese col recupero di serie Tv ne sarà certamente al corrente: il tempo può essere un cerchio.
La linea del tempo viaggia dritta, ma in potenza si morde la coda. Gli avvenimenti si ripetono ciclici come la primavera e l’inverno: nascita e morte, corsi e ricorsi storici. Così i piani di passato, presente e futuro sembrano confondersi come in un ponte di Einstein – Rosen (O forse sono solo Dark e Dirk Gently a parlare). Insomma, ogni fine può essere un nuovo inizio.
Sulla falsariga di questa morale sembra muoversi il 39° disco di Robert Zimmerman, in arte Bob, mitologica figura di questi anni mutevoli.
Genio poliedrico, Dylan dovrebbe ormai essere il proverbiale saggio in cima alla montagna, in stoica contemplazione del mondo antistante: ideatore del folk-rock derivato dal country folk di Jimmie Rodgers e dai traditional americani, ha anche creato la figura del cantautore moderno. E come tale vanta 10 Grammy Award, un premio Oscar e un premio Nobel.
E invece no. Perché riprendendo proprio un Lp di Rodgers (“Rough and Rowdy Ways”), a 79 anni suonati e con una visione olistica del nostro tempo malato, Dylan dà alla luce il suo 39° figlio.
A 8 anni da “Tempest”, suo ultimo capolavoro di inediti, uno pensa che si sia preso una pausa. Ma Robert non è mai stato fermo… estendendo la produzione oltre i confini musicali: un Neverending tour, tre volumi dedicati agli standard americani e svariati bootleg e l’inarrestabile di Duluth si dà all’artigianato. Come saldatore, realizza cancelli con ferri di recupero. Produce la Heaven’s Door (sua personale linea di whiskey e bourbon). E dipinge ‘paesaggi e nudi’. Come se la sua anima ‘contenesse moltitudini’ che proprio non ce la fanno a risiedere in un unico tramite.
MANIERE GREZZE E RUMOROSE
Uscito lo scorso 19 giugno, l’album è un sistema binario che brilla di luce propria. Un doppio disco che si coniuga in un blues straripante, in ballate dal sapore country rock ora più cupe, ora più oniriche, imbevute di imagismo e cultura generale.
Forse perché a cercarne un principio si fa alquanto fatica, o perché la prima traccia sembra essere un estratto della B-side (che a sua volta potrebbe essere il preludio dell’ultima) la sensazione è di essere dentro a un loop musicale in cui l’alfa e l’omega si sfiorano. E su questa base inizia “I Contain Multitudes”.
Il brano più etereo e rappresentativo dell’opera, è una flebile ballata dal tempo jazzato. Una meditazione sulle sue molteplici esistenze che fa pensare ai personaggi di Io Non Sono Qui. Da Whitman ad Anna Frank passando per gli Stones, per Dylan la razza umana dorme con la vita e la morte: “Ogni essere umano, non importa quanto forte o potente, è fragile quando si affaccia alla morte”. Come un’eco dell'”Ozymandias”.
“False Prophet” è il primo e il miglior blues dell’album, dallo stile cadenzato ma dall’incedere pesante. Beffardo e spettrale, in esso Martin Luther King si unisce ai dogmi musicali di Muddy Waters in concerto con la Bibbia, la vita e l’amore. E tutto ciò che c’è in mezzo.
“I’ve Made Up My Mind To Give Myself To You” è una ballata ancor più tradizionale, sostenuta da un coro Waitsiano in pieno stile “Triplicate” Chi ha detto che a parlare d’amore non si possa essere semplici? La musica di Tom Waits si fonde col canto folk in questa ninna nanna che sa di primi passi, rapendo il cuore degli ascoltatori in un’ammaliante dolcezza.
Probabilmente per Dylan il loop ha avuto origine il 22 novembre del ’63, data nefasta in cui i valori di un’America illuminata si sono scontrati con la pallottola di un’entropia cosmica, disposta a far cadere il mondo nel caos col suo Presidente. E poi furono i Beatles e fu il disimpegno, e fu Woodstock e furono gli hippie. E in un attimo la militanza politica del folk fece spazio all’amore tantrico del rock commerciale. Lo stesso con cui Dylan sentì di rinnegare i suoi ideali per vile denaro, per cui da sempre si vede come un Oswald che con una sola virata uccise il suo io del passato.
Ma come vuole la fantascienza, se uccidi te stesso nel passato, rischi di sparire nel presente. Sarà per questo che la sua canzone più apocalittica, presentata come singolo e poi giustapposta nel secondo album, di apocalittico non ha nulla. “Murder Most Foul”, sua prima hit di quasi 17 minuti ad entrare nella classifica Billboard, sembra sgattaiolata da “Tempest”. Non manca certo di immagini icastiche e violente, ma invece di farci sentire ingabbiati in un loop di strofe infinite, mostra nei toni la tenerezza dell’amore più adulto, come un’oasi di affetto compassionevole per il “lungo e strano viaggio della scimmia nuda”.
“Key west (Philospher pirate)” è da molti considerata il capolavoro del disco, un’immensa ballata e un viaggio verso la Florida in compagnia dei propri numi Ginnsberg, Corso e Kerouac. Fisarmonica, chitarra e spazzole creano una riflessione sull’immortalità ambientata in un viaggio lungo la Route 1.
Interrogato sull’ispirazione, Dylan tira fuori il cartellino dell'”eroe in trance“. Come a volersi schermare dalle solite domande in una risposta un po’ paracula alla David Lynch che non si ricorda cosa vogliano dire i suoi film. Sembra volerci comunicare, come tutti in epoca Covid, di essere ancora vivo e in piena salute, come se qualcuno gli avesse rinfacciato di essere ‘scomparso’ in questi 8 anni di pubblicazioni non inedite (dal crooning di “Shadows in the Night”, “Fallen Angels” e “Triplicate” alle svariate “bootleg series”), ma anche a quelle domande non dà mai una vera risposta.
Quasi a volersi meritare il Nobel per la letteratura 2016, Dylan suona squisitamente citazionistico in questo album. Tra amore sacro e amor profano, i suoi riferimenti spaziano da Whitman a Blake, dagli Who ai Queen, dai telefilm anni ’60 al cinema pop della New Hollywood. Prigioniero della sua mente e delle sue caotiche scintille creative, forse vuol proprio dirci che in fondo di quest’esistenza e delle sue leggi non è che ci abbia capito poi molto. Ma che sia anche giusto così.
Certo, del come e del quando ha ormai piena consapevolezza, ma il perché.. quello rimane il vero mistero. E forse ha anche smesso di chiederselo. Preferendo “consegnarsi”, così come la natura lo ha fatto, “a tutti noi”.
“Rough and Rowdy Ways” copre territori complessi: trance e inni, blues ed amori, riflessioni dell’età del crepuscolo e serenità spirituale. E in un attimo si è già al terzo riascolto, in un eterno ritorno di emozioni vitali.